Samstag, 28. Oktober 2017

YOUR GUIDE, YOUR BEST FRIEND IN BERLIN: Aktuell in der Berliner RAAB-Galerie: History of Art - mit 07.09.17 - 07.11.17



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Aktuell in der Galerie:   History of Art - 07.09.17 - 07.11.17








Künstler:
Rainer Fetting
Titel:
Scetch 1.Zustand
Technik:
Radierung / etching
Jahr:
1989
Größe:
69.00x83.00
Preis
1900.00 














 















 

























jrgallery - Goethestraße 81, 10623 Berlin    Raab Galerie –












Goethestraße 81, 10623 Berlin







Einladung zum Galerienrundgang

History of Art


am Freitag, den 15..September 2017 in der Zeit von 18 bis 21 Uhr
mit Werken von
u.a. Albert- Baumgärtel Bleckner El Bocho Dessi Dichgans Dine Fetting Führer Giebe Gur Hödicke Kaletsch Kim Kirke Klemm Köhler Krammer Lagqaffe Lüpertz Maron Molfetta Qin Raminhos Schlüter Salome Sous Sultan Trökes Vellguth Wolf Ye

Es gehört dazu, sich Fragen an das Meisterwerk,die Kunstgeschichte, die Bedeutung eines Künstlers zu stellen, auch wenn man sie in der eigenen Zeit kaum unbeeinflußt  beantworten kann. Einen Anhaltspunkt gibt es jedoch immer: das Kunstwerk, das einen anstrahlt und ein Spiegel des eigenen Urteils ist, das sich aus einer Fülle von Informationen über Kunstwerke herausgebildet hat, ganz unabhängig vom Kunstmarkt, von Sachverständigen, Schätzpreisen und Ranglisten der besten zeitgenössischen Künstler.  Spannend ist an der Kunstgeschichte, dass sie Künstlerleben über Jahrhunderte verlängert, ein Künstler, der sich heute auf Rubens bezieht, holt die ganze Geschichte mit an Bord. Voraussetzung ist, dass der Wettstreit bestanden wird, dass nämlich sichtbar wird, warum dem Vorbild aus heutiger Sicht noch etwas hinzuzufügen ist, was abzuändern, umzudichten wäre und wie das auch den Blick auf das kunsthistorische Vorbild verändert, was im besten Fall wieder hochaktuell durch die Neuinterpretation wird.
 

Wenn Künstler in Museen gehen, besuchen sie dort die Lieblingswerke ihrer Lieblingskünstler. Danach können sie vor der eigenen Leinwand ausprobieren, wie leicht oder komplziert der Malstil des Kollegen selbst zu bewerkstelligen ist und ob die Effekte auch für das eigene Werk taugen. Über Generationen kann man tradiertes Wissen um Licht und Schatten, Farbauftrag, Farblehre und eigene Handschrift bewundern, weil Wettbewerb nicht bei der eigenen Generation aufhört. Vieles gerät einmal aus der Mode, oft nur, bis die Mode in anderer Verkleidung wiederkehrt.
Auch Stilrichtungen üben großen Reiz auf Künstler aus. Es gibt Einflüsse, die nicht nur von bildender Kunst ausgehen, sondern in Literatur, Mode, Film, Comic zu Hause sind, wie der Surrealismus. Wem das zu versponnen ist, der kann ganz handfest zur pop art greifen, deren erste Akteure zunächst hochprofessionell ihr Geld in der Werbebranche verdient haben. Mit dem "popular" Ansatz zeigt sich ihr Spaß am Ausprobieren neuer Effekte.  Sie wissen auch, wie ein attraktives Werk aussehen sollte. Malen wie Lichtenstein muß man dennoch erst einmal können, der hochsensible und zurückgezogen lebende Mensch war seinen Themen in geduldiger, liebevoller Art zugewandt. Viele weitere Richtungen haben die letzten siebzig Jahre in der Malerei definiert. Auf den Surrealismus folgt der abstrakte Expressionismus, der so hochkarätig und subversiv diskutiert wird, dass sich sofort eine Gegenrichtung stark macht: die Neuauflage des gegenständlichen Expressionismus. Angeregt von der Nanotechnik ist auch die Vergößerung/Verkleinerung ein wichtiges Thema, neue Fotos aus den Naturwissenschaften bringen eine subtile Farb- und Foremnwelt hervor, die Künstler wie Ross Bleckner schon seit langem faszinieren. Aus Duchamps Werk haben einige den Schluß gezogen, dass er Malerei abschaffen wollte, das kommentiert jeder Vollblutmaler bis heute mit Schadenfreude und einer Fülle großartiger Bildideen.  Wir erinnern uns jetzt an die Kunstwerke, die zeitgenössiche Kunst angeregt haben und Modell standen für die nächsten Generationen.
Wir laden Sie ein zu besichtigen, was Sie gedanklich beeinflussen und bewegen könnte und freuen uns, Ihnen die vielen Überaschungen zu unserer nächsten Ausstellungseröffnung zu zeigen. Denn es läßt sich nicht abstreiten, den Künstlern hat das Thema gefallen und sie haben uns wunderschöne Werke gebracht.
 
Herzlich Ihre Ingrid und Julia Raab

Ausstellungsdauer: 9.9.2017 bis 7.10.2017
Tel.:  +49 (0)30- 261 92 17
www.raab-galerie.de
mail@raab-galerie.de

www.jrgallery.de
info@jrgallery.de



Quelle: http://www.raab-galerie.de/Pages_de/index.php (Stand 29.10.2017)

Freitag, 20. Oktober 2017

Solidarietà si: Ahmet Altan: Mi possono imprigionare, ma non mi possono tenere


Ahmet Altan: Mi possono imprigionare, ma non mi possono tenere


“Un oggetto in movimento non è né là dov’è, né là dove non è.” – così recita il famoso paradosso di Zeno. Già quando ero ancora molto giovane ho dedotto che questo paradosso, più che la fisica, riguardasse la letteratura e in particolare la posizione dello scrittore.
Sto scrivendo nella cella di una prigione.
Se si inserisse la frase “Scrivo nella cella di una prigione” nel testo di un racconto, assumerebbe immediatamente una tensione interiore vibrante, il suono di una voce che si alzerebbe in modo spaventoso da un mondo oscuro e misterioso, una voce che parlerebbe del coraggio di una vittima e che chiederebbe in modo inequivocabile pietà.
Prima di cominciare ad impietosirvi, però, ascoltate ciò che ho da dire.
Questa è una frase pericolosa che facilmente può essere utilizzata per sfruttare i sentimenti delle persone. Anche gli scrittori non sono sempre immuni davanti alla tentazione di usare la lingua e le emozioni che queste evocano in funzione dei propri interessi.
Fermi. Prima di impietosirvi, vi prego di ascoltare quello che ho da dire.
Si, sono stato rinchiuso in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla.
Si, vivo in una cella le cui porte di ferro si aprono e si chiudono con rumori pesanti.
Sì, i pasti mi vengono serviti attraverso una fessura nella porta.
Sì, anche il piccolo cortile con il suo pavimento di pietra dove cammino avanti e indietro, è coperto da sbarre.
Sì, non posso vedere nessuno tranne il mio avvocato e i miei figli; non mi è nemmeno concesso di scrivere ai miei cari.
Sì, quando devo andare in ospedale, tirano fuori un paio di manette da un mucchio di attrezzi di ferro e me li chiudono attorno ai polsi.
Sì, ogni volta che mi vengono a prendere nella mia cella, urlano ordini come “mani in alto” e “togliere le scarpe”.
Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.
Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta in prigione. Mai.
In estate, quando i primi raggi di sole penetrano dalla finestra sbarrata, trafiggendo come delle lame luminose il mio cucino, ascolto il canto degli uccelli migratori che hanno dormito vicino all’acqua e il suono secco delle bottiglie di plastica scalciate dai piedi dei detenuti che camminano avanti e indietro nel cortile.
In questi momenti ho la sensazione di essere nel giardino della mia casa d’infanzia o – non so perché, in un piccolo albergo in uno di quelle vie parigine rumorose che mi ricordano “Irma la Douce”.
Quando invece mi sveglio e il rabbioso vento del nord spinge le piogge d’autunno contro la mia finestra, allora comincio la mia giornata in un albergo sulla riva del Danubio, davanti al quale ogni notte, si accendono delle fiaccole. Quando mi sveglia il sussurro della neve che si ammucchia sul davanzale, allora mi trovo dietro la finestra della casa dove il dott. Zivago trovò rifugio.
Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta sola in prigione. Mai.
E tutto questo non è ancora nulla in confronto alle mie avventure notturne. Passeggio su delle isole thailandesi, nelle vie di Amsterdam, nei labirinti nascosti di Parigi e nei piccoli parchi che si estendono tra le grandi vie di New York. Mi trovo nelle strade innevate di una piccola città in Alaska, in un albergo a Londra e in un ristorante a Istanbul.
Ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare anche se, la maggior parte di loro, non ho mai visto.
Posso incontrarli anche sulle rive del rio dell’Amazoni, in una spiaggia del Messico, nelle savane africane. Ogni giorno parlo con delle persone che nessuno vede, persone che non esistono e che io chiamerò in vita nel momento in cui comincerò a scrivere su di loro. Ascolto mentre parlano tra di loro. Vivo il loro amore, le loro avventure, speranze, preoccupazioni e gioie. A volte rido silenziosamente mentre cammino in cortile – le loro conversazioni possono essere assai divertenti. E siccome qui in prigione non voglio incominciare, le scrivo con l’inchiostro scuro della memoria direttamente nel mio cervello.
So di essere uno schizofrenico finché tutte queste persone abitano solo nella mia testa. Ma so anche che sono uno scrittore e che un giorno, tutti si ritroveranno tra le pagine di un libro. Mi diverto ad oscillare come su una altalena tra la schizofrenia e il mio essere scrittore. Mi alzo in aria come fumo e esco dalla prigione accanto a tutti quelli che vivono nei miei pensieri. Loro – gli altri – avranno il potere di gettarmi in prigione, ma non quello di tenermi là dentro.
Dietro la difesa d’acciaio dei miei libri sono inviolabile.
Sono uno scrittore.
Non sono né là dove sono, né là dove non sono.
Ovunque voi mi chiuderete, io viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri.
Inoltre, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano in questi miei viaggi, anche se la maggior parte di loro non ho mai visto.
Ogni occhio che legge ciò che scrivo, ogni voce che nomina il mio nome, mi prende per la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sopra pianure, fonti, boschi, mari, città e strade. Con gesti semplici mi ospitano nelle loro case, nelle loro sale e stanze.
In una cella della prigione, esploro tutto il mondo.
Avete indovinato: Possiedo l’arroganza divina che raramente si confessa, ma che appartiene a tutti gli scrittori e che viene trasmessa da generazione in generazione. Possiedo la sicurezza che cresce come una perla nel duro guscio della letteratura. Dietro il rifugio dei miei libri sono inviolabile.
Scrivo in una cella di prigione.
Ma non sono in prigione.
Sono uno scrittore.
Non sono né là dove sono, né là, dove non sono.
Mi potete chiudere, ma non mi potere fermare.
Poiché io ho il potere di tutti gli scrittori. Posso, senza sforzo, attraversare muri.
Lo scrittore Ahmet Altan, un fervente critico del regime Erdoğan e uno dei primi scrittori turchi a denunciare pubblicamente il genocidio degli armeni, fu arestato con l’acusa di sostenimento di una organizzazione terroristica nel settembre 2016.
Traduzione dalla traduzione tedesca – filologicamente discutibile, ma giustificato dall’urgenza di diffondere questo testo – di Stefanie Golisch

Veröffentlichung durch die Übersetzerin gestattet 
Quelle: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/10/17/ahmet-altan-mi-possono-imprigionare-ma-non-mi-possono-tenere/#more-98362 (Stand 20. Oktober 2017)

Dienstag, 10. Oktober 2017

Solidarisiert euch: Türkischer Schriftsteller Ahmet Altan seit einem Jahr in Haft



Ahmet Altan: «Sie können mich einsperren – halten können sie mich nicht»

Seit mehr als einem Jahr sitzt der türkische Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan im Gefängnis. In einem bewegenden Manifest erklärt er, warum ihn die Haft nicht brechen kann.

Unbequeme Stimme

as. · Ahmet Altan, 1950 in Ankara geboren, sitzt seit mehr als einem Jahr in der Türkei in Haft. Der Schriftsteller und Journalist hatte in einer Fernsehsendung unmittelbar vor dem Putschversuch am 15. Juli gesagt, die AKP werde ihre Macht verlieren, was ihm postwendend als «Mittäterschaft» am Staatsstreich ausgelegt wurde. Die Äußerung war ein bequemer Vorwand, eine unbequeme Stimme zum Schweigen zu bringen: Altan hatte als Journalist und später als Herausgeber der Zeitung «Taraf» immer wieder kritisch gegen die Machthaber in der Türkei Position bezogen und auch Tabuthemen wie die Diskriminierung der Kurden und den Völkermord an den Armeniern aufgegriffen. Daneben trat er als Verfasser mehrerer Romane hervor. Zusammen mit ihm wurde sein Bruder Mehmet, Professor für Volkswirtschaft und ebenfalls publizistisch tätig, verhaftet und angeklagt; die Brüder werden im selben Gefängnis festgehalten, dürfen einander aber nicht sehen. Das Manuskript des abgedruckten Beitrags konnte Altans Anwalt aus der Haftanstalt schmuggeln.


Ich schreibe diese Worte in der Gefängniszelle“

«Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle»: Mit diesen Worten beginnt der türkische Schriftsteller Ahmet Altan sein Manifest, das er über seinen Anwalt aus der Haftanstalt schmuggeln konnte. Altan sitzt seit mehr als einem Jahr in der Türkei in Haft, «in einem Hochsicherheitsgefängnis draußen im Nirgendwo». Der Schriftsteller und Journalist hatte immer wieder kritisch gegen die Machthaber in der Türkei Position bezogen und auch Tabuthemen wie die Diskriminierung der Kurden und den Völkermord an den Armeniern aufgegriffen. «Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle», schreibt er nun also, nach seiner Verhaftung. Und er fügt kraftvoll hinzu: «Aber ich bin nicht im Gefängnis. Ich bin Schriftsteller. Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin. Ihr könnt mich gefangen setzen, aber ihr könnt mich nicht gefangen halten.» Ungekürzt untenstehend sein Manifest, dessen deutsche Übersetzung die NZZ exklusiv publiziert.

Ahmet Altan: «Sie können mich einsperren – halten können sie mich nicht»

Ahmet Altan10.10.2017, 05:30 Uhr


«Ein Objekt in Bewegung ist weder dort, wo es ist, noch dort, wo es nicht ist» – so die Implikation von Zenons berühmtem Paradox. Schon früh kam ich zu dem Schluss, dass dieses Paradox zur Literatur, und erst recht zum Schriftsteller, viel besser passt als zur Physik.

Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle.
Fügen Sie den Satz «Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle» irgendeiner Erzählung bei, und sie wird dadurch eine vibrierende Innenspannung gewinnen, den Klang einer Stimme, die sich furchteinflössend aus einer dunklen, mysteriösen Welt erhebt; die von der Unbeugsamkeit des Geknechteten spricht und unüberhörbar Mitleid einfordert.
Bevor Sie die Trommeln des Erbarmens zu rühren beginnen, sollten Sie erst einmal hören, was ich Ihnen zu erzählen habe.
Es ist ein gefährlicher Satz; er kann dazu dienlich sein, die Gefühle anderer Menschen auszunutzen. Und Schriftsteller sind nicht immer gegen die Versuchung gefeit, Sprache und die Emotionen, die sie wachruft, in einer Weise zu verwenden, die ihren eigenen Interessen dient. Sogar wenn die Leser das realisieren, mögen sie immer noch geneigt sein, Erbarmen mit dem Schriftsteller zu haben.
Aber halt. Bevor Sie die Trommeln des Erbarmens zu rühren beginnen, sollten Sie erst einmal hören, was ich Ihnen zu erzählen habe.

Ja, ich werde in einem Hochsicherheitsgefängnis draussen im Nirgendwo festgehalten.
Ja, ich lebe in einer Zelle, deren Tür sich mit dem schweren Klang von Eisen öffnet und schliesst.
Ja, das Essen wird mir durch einen Schlitz in der Türe gereicht.
Ja, auch der kleine, steingeflieste Hof, wo ich auf und ab gehe, ist mit stählernen Gittern gedeckt.
Ja, ich darf niemanden sehen ausser meinem Anwalt und meinen Kindern; ich darf nicht einmal zwei Zeilen an meine Lieben schicken.
Ja, wenn ich ins Spital muss, ziehen sie ein Paar Handschellen aus einem ganzen Bündel eiserner Gerätschaften und legen sie mir an.
Ja, wann immer sie mich aus der Zelle holen, schlagen mir Befehle wie «Arme hoch, Schuhe ausziehen» ins Gesicht.
All das ist wahr, aber es ist nicht die ganze Wahrheit.
Bis heute bin ich nicht ein Mal im Gefängnis erwacht – nie.
An Sommermorgen, wenn die ersten Sonnenstrahlen durchs nackte, vergitterte Fenster dringen und sich wie leuchtende Speere in mein Kissen bohren, lausche ich dem munteren Gesang der Zugvögel, die draussen auf der Traufe genächtigt haben, und dem seltsamen, trockenen Geräusch, das entsteht, wenn die Häftlinge beim Hofgang auf eine Plasticflasche treten.
Dann glaube ich, im Gartenpavillon meines Elternhauses zu sein, oder – ich kann selbst nicht sagen, warum – in einem kleinen Hotel an einer jener belebten Pariser Strassen, die man aus «Irma la Douce» kennt.
Wenn ich aufwache und wütender Nordwind den Herbstregen gegen mein Fenster peitscht, dann beginne ich meinen Tag in einem Hotel am Ufer der Donau, vor dessen Tor jede Nacht Fackeln entzündet werden. Wenn mich das Geflüster des Schnees weckt, der sich auf dem Sims häuft, dann finde ich mich hinter dem Fenster der Datscha, in der Doktor Schiwago Zuflucht fand.
Bis heute bin ich nicht ein Mal im Gefängnis erwacht – nie.
Und das ist noch nichts im Vergleich zu meinen nächtlichen Abenteuern. Ich streife über thailändische Inseln, durch Londoner Hotels, die Strassen Amsterdams, die geheimen Labyrinthe von Paris, die Istanbuler Restaurants am Bosporusufer, die kleinen Parks, die sich zwischen den Strassen von New York verbergen, durch die schneeverwehten Strassen einer Kleinstadt in Alaska.
Ich habe Freunde auf der ganzen Welt, die mir beim Reisen helfen, auch wenn ich die meisten von ihnen nie gesehen habe.
Sie können mir am Ufer des Amazonas begegnen, an einem mexikanischen Strand, in den Savannen Afrikas. Tagein, tagaus rede ich mit Menschen, die keiner sieht oder hört, Menschen, die nicht existieren, deren Existenz erst an dem Tag beginnen wird, da ich über sie schreibe. Ich lausche, während sie sich miteinander unterhalten. Ich lebe ihre Liebe, ihre Abenteuer, ihre Hoffnungen, Kümmernisse und Freuden. Manchmal lache ich leise während des Hofgangs, weil ihre Gespräche ziemlich unterhaltsam sein können. Und weil ich sie hier im Gefängnis nicht auf Papier bannen will, schreibe ich mir all das mit der dunklen Tinte des Gedächtnisses direkt ins Hirn.
Ich weiß, dass ich ein Schizophrener bin, solange alle diese Leute in meinem Kopf wohnen bleiben. Ich weiß aber auch, dass ich ein Schriftsteller bin und dass diese Leute sich eines Tages in den Sätzen auf den Seiten eines Buches wiederfinden werden. Ich vergnüge mich damit, wie auf einer Schaukel zwischen Schizophrenie und Autorschaft hin und her zu schwingen. Ich erhebe mich in die Luft wie Rauch und verlasse das Gefängnis an der Seite der Menschen, die in meinen Gedanken leben. Sie – die anderen – mögen die Macht haben, mich ins Gefängnis zu sperren; im Gefängnis halten können sie mich nicht.
Hinter der stählernen Wehr meiner Bücher bin ich unverletzlich.
Ich bin Schriftsteller.
Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin.
Wo auch immer ihr mich einsperrt, werde ich die Welt auf den Flügeln meiner Gedanken bereisen.
Und obendrein habe ich Freunde auf der ganzen Welt, die mir beim Reisen helfen, auch wenn ich die meisten von ihnen nie gesehen habe.
Jedes Auge, das liest, was ich schreibe, jede Stimme, die meinen Namen nennt, nimmt mich bei der Hand wie eine kleine Wolke und lässt mich über die Ebenen fliegen, die Quellen, die Wälder, die Meere, die Städte und Strassen. Ohne grosse Worte gewähren sie mir Gastrecht in ihren Häusern, ihren Hallen, ihren Zimmern.
In einer Gefängniszelle bereise ich die ganze Welt.

Sie haben es wohl erraten: Ich besitze eine göttliche Arroganz – eine, die selten eingestanden wird, die aber den Schriftstellern ureigen ist und von einer Generation zur nächsten weitergereicht wird. Ich besitze ein Selbstvertrauen, das wie eine Perle in der harten Schale der Literatur wächst. Hinter der stählernen Wehr meiner Bücher bin ich unverletzlich.
Ich schreibe dies in einer Gefängniszelle.
Aber ich bin nicht im Gefängnis.
Ich bin Schriftsteller.
Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin.
Ihr könnt mich gefangen setzen, aber ihr könnt mich nicht gefangen halten.
Weil ich die Zaubermacht habe, die allen Schriftstellern eigen ist. Ich kann mühelos durch Wände gehen.
Der Text Ahmet Altans erschien in einer von Yasemin Çongar besorgten englischen Übersetzung auf der Website der Society of Authors. Aus dem Englischen von as.

Wer seine Worte liest, schenkt ihm ein Stück Freiheit: Der Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan. (Bild: Guillem Lopez / Photoshot / Alamy)

Wer seine Worte liest, schenkt ihm ein Stück Freiheit: Der Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan. (Bild: Guillem Lopez / Photoshot / Alamy)


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