Samstag, 28. Oktober 2017

YOUR GUIDE, YOUR BEST FRIEND IN BERLIN: Aktuell in der Berliner RAAB-Galerie: History of Art - mit 07.09.17 - 07.11.17



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Aktuell in der Galerie:   History of Art - 07.09.17 - 07.11.17








Künstler:
Rainer Fetting
Titel:
Scetch 1.Zustand
Technik:
Radierung / etching
Jahr:
1989
Größe:
69.00x83.00
Preis
1900.00 














 















 

























jrgallery - Goethestraße 81, 10623 Berlin    Raab Galerie –












Goethestraße 81, 10623 Berlin







Einladung zum Galerienrundgang

History of Art


am Freitag, den 15..September 2017 in der Zeit von 18 bis 21 Uhr
mit Werken von
u.a. Albert- Baumgärtel Bleckner El Bocho Dessi Dichgans Dine Fetting Führer Giebe Gur Hödicke Kaletsch Kim Kirke Klemm Köhler Krammer Lagqaffe Lüpertz Maron Molfetta Qin Raminhos Schlüter Salome Sous Sultan Trökes Vellguth Wolf Ye

Es gehört dazu, sich Fragen an das Meisterwerk,die Kunstgeschichte, die Bedeutung eines Künstlers zu stellen, auch wenn man sie in der eigenen Zeit kaum unbeeinflußt  beantworten kann. Einen Anhaltspunkt gibt es jedoch immer: das Kunstwerk, das einen anstrahlt und ein Spiegel des eigenen Urteils ist, das sich aus einer Fülle von Informationen über Kunstwerke herausgebildet hat, ganz unabhängig vom Kunstmarkt, von Sachverständigen, Schätzpreisen und Ranglisten der besten zeitgenössischen Künstler.  Spannend ist an der Kunstgeschichte, dass sie Künstlerleben über Jahrhunderte verlängert, ein Künstler, der sich heute auf Rubens bezieht, holt die ganze Geschichte mit an Bord. Voraussetzung ist, dass der Wettstreit bestanden wird, dass nämlich sichtbar wird, warum dem Vorbild aus heutiger Sicht noch etwas hinzuzufügen ist, was abzuändern, umzudichten wäre und wie das auch den Blick auf das kunsthistorische Vorbild verändert, was im besten Fall wieder hochaktuell durch die Neuinterpretation wird.
 

Wenn Künstler in Museen gehen, besuchen sie dort die Lieblingswerke ihrer Lieblingskünstler. Danach können sie vor der eigenen Leinwand ausprobieren, wie leicht oder komplziert der Malstil des Kollegen selbst zu bewerkstelligen ist und ob die Effekte auch für das eigene Werk taugen. Über Generationen kann man tradiertes Wissen um Licht und Schatten, Farbauftrag, Farblehre und eigene Handschrift bewundern, weil Wettbewerb nicht bei der eigenen Generation aufhört. Vieles gerät einmal aus der Mode, oft nur, bis die Mode in anderer Verkleidung wiederkehrt.
Auch Stilrichtungen üben großen Reiz auf Künstler aus. Es gibt Einflüsse, die nicht nur von bildender Kunst ausgehen, sondern in Literatur, Mode, Film, Comic zu Hause sind, wie der Surrealismus. Wem das zu versponnen ist, der kann ganz handfest zur pop art greifen, deren erste Akteure zunächst hochprofessionell ihr Geld in der Werbebranche verdient haben. Mit dem "popular" Ansatz zeigt sich ihr Spaß am Ausprobieren neuer Effekte.  Sie wissen auch, wie ein attraktives Werk aussehen sollte. Malen wie Lichtenstein muß man dennoch erst einmal können, der hochsensible und zurückgezogen lebende Mensch war seinen Themen in geduldiger, liebevoller Art zugewandt. Viele weitere Richtungen haben die letzten siebzig Jahre in der Malerei definiert. Auf den Surrealismus folgt der abstrakte Expressionismus, der so hochkarätig und subversiv diskutiert wird, dass sich sofort eine Gegenrichtung stark macht: die Neuauflage des gegenständlichen Expressionismus. Angeregt von der Nanotechnik ist auch die Vergößerung/Verkleinerung ein wichtiges Thema, neue Fotos aus den Naturwissenschaften bringen eine subtile Farb- und Foremnwelt hervor, die Künstler wie Ross Bleckner schon seit langem faszinieren. Aus Duchamps Werk haben einige den Schluß gezogen, dass er Malerei abschaffen wollte, das kommentiert jeder Vollblutmaler bis heute mit Schadenfreude und einer Fülle großartiger Bildideen.  Wir erinnern uns jetzt an die Kunstwerke, die zeitgenössiche Kunst angeregt haben und Modell standen für die nächsten Generationen.
Wir laden Sie ein zu besichtigen, was Sie gedanklich beeinflussen und bewegen könnte und freuen uns, Ihnen die vielen Überaschungen zu unserer nächsten Ausstellungseröffnung zu zeigen. Denn es läßt sich nicht abstreiten, den Künstlern hat das Thema gefallen und sie haben uns wunderschöne Werke gebracht.
 
Herzlich Ihre Ingrid und Julia Raab

Ausstellungsdauer: 9.9.2017 bis 7.10.2017
Tel.:  +49 (0)30- 261 92 17
www.raab-galerie.de
mail@raab-galerie.de

www.jrgallery.de
info@jrgallery.de



Quelle: http://www.raab-galerie.de/Pages_de/index.php (Stand 29.10.2017)

Freitag, 20. Oktober 2017

Solidarietà si: Ahmet Altan: Mi possono imprigionare, ma non mi possono tenere


Ahmet Altan: Mi possono imprigionare, ma non mi possono tenere


“Un oggetto in movimento non è né là dov’è, né là dove non è.” – così recita il famoso paradosso di Zeno. Già quando ero ancora molto giovane ho dedotto che questo paradosso, più che la fisica, riguardasse la letteratura e in particolare la posizione dello scrittore.
Sto scrivendo nella cella di una prigione.
Se si inserisse la frase “Scrivo nella cella di una prigione” nel testo di un racconto, assumerebbe immediatamente una tensione interiore vibrante, il suono di una voce che si alzerebbe in modo spaventoso da un mondo oscuro e misterioso, una voce che parlerebbe del coraggio di una vittima e che chiederebbe in modo inequivocabile pietà.
Prima di cominciare ad impietosirvi, però, ascoltate ciò che ho da dire.
Questa è una frase pericolosa che facilmente può essere utilizzata per sfruttare i sentimenti delle persone. Anche gli scrittori non sono sempre immuni davanti alla tentazione di usare la lingua e le emozioni che queste evocano in funzione dei propri interessi.
Fermi. Prima di impietosirvi, vi prego di ascoltare quello che ho da dire.
Si, sono stato rinchiuso in una prigione di alta sicurezza in mezzo al nulla.
Si, vivo in una cella le cui porte di ferro si aprono e si chiudono con rumori pesanti.
Sì, i pasti mi vengono serviti attraverso una fessura nella porta.
Sì, anche il piccolo cortile con il suo pavimento di pietra dove cammino avanti e indietro, è coperto da sbarre.
Sì, non posso vedere nessuno tranne il mio avvocato e i miei figli; non mi è nemmeno concesso di scrivere ai miei cari.
Sì, quando devo andare in ospedale, tirano fuori un paio di manette da un mucchio di attrezzi di ferro e me li chiudono attorno ai polsi.
Sì, ogni volta che mi vengono a prendere nella mia cella, urlano ordini come “mani in alto” e “togliere le scarpe”.
Tutto questo è vero, ma non è tutta la verità.
Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta in prigione. Mai.
In estate, quando i primi raggi di sole penetrano dalla finestra sbarrata, trafiggendo come delle lame luminose il mio cucino, ascolto il canto degli uccelli migratori che hanno dormito vicino all’acqua e il suono secco delle bottiglie di plastica scalciate dai piedi dei detenuti che camminano avanti e indietro nel cortile.
In questi momenti ho la sensazione di essere nel giardino della mia casa d’infanzia o – non so perché, in un piccolo albergo in uno di quelle vie parigine rumorose che mi ricordano “Irma la Douce”.
Quando invece mi sveglio e il rabbioso vento del nord spinge le piogge d’autunno contro la mia finestra, allora comincio la mia giornata in un albergo sulla riva del Danubio, davanti al quale ogni notte, si accendono delle fiaccole. Quando mi sveglia il sussurro della neve che si ammucchia sul davanzale, allora mi trovo dietro la finestra della casa dove il dott. Zivago trovò rifugio.
Fino ad oggi, non mi sono svegliato una sola volta sola in prigione. Mai.
E tutto questo non è ancora nulla in confronto alle mie avventure notturne. Passeggio su delle isole thailandesi, nelle vie di Amsterdam, nei labirinti nascosti di Parigi e nei piccoli parchi che si estendono tra le grandi vie di New York. Mi trovo nelle strade innevate di una piccola città in Alaska, in un albergo a Londra e in un ristorante a Istanbul.
Ho amici in tutto il mondo che mi aiutano a viaggiare anche se, la maggior parte di loro, non ho mai visto.
Posso incontrarli anche sulle rive del rio dell’Amazoni, in una spiaggia del Messico, nelle savane africane. Ogni giorno parlo con delle persone che nessuno vede, persone che non esistono e che io chiamerò in vita nel momento in cui comincerò a scrivere su di loro. Ascolto mentre parlano tra di loro. Vivo il loro amore, le loro avventure, speranze, preoccupazioni e gioie. A volte rido silenziosamente mentre cammino in cortile – le loro conversazioni possono essere assai divertenti. E siccome qui in prigione non voglio incominciare, le scrivo con l’inchiostro scuro della memoria direttamente nel mio cervello.
So di essere uno schizofrenico finché tutte queste persone abitano solo nella mia testa. Ma so anche che sono uno scrittore e che un giorno, tutti si ritroveranno tra le pagine di un libro. Mi diverto ad oscillare come su una altalena tra la schizofrenia e il mio essere scrittore. Mi alzo in aria come fumo e esco dalla prigione accanto a tutti quelli che vivono nei miei pensieri. Loro – gli altri – avranno il potere di gettarmi in prigione, ma non quello di tenermi là dentro.
Dietro la difesa d’acciaio dei miei libri sono inviolabile.
Sono uno scrittore.
Non sono né là dove sono, né là dove non sono.
Ovunque voi mi chiuderete, io viaggerò per il mondo sulle ali dei miei pensieri.
Inoltre, ho amici in tutto il mondo che mi aiutano in questi miei viaggi, anche se la maggior parte di loro non ho mai visto.
Ogni occhio che legge ciò che scrivo, ogni voce che nomina il mio nome, mi prende per la mano come una piccola nuvola e mi fa volare sopra pianure, fonti, boschi, mari, città e strade. Con gesti semplici mi ospitano nelle loro case, nelle loro sale e stanze.
In una cella della prigione, esploro tutto il mondo.
Avete indovinato: Possiedo l’arroganza divina che raramente si confessa, ma che appartiene a tutti gli scrittori e che viene trasmessa da generazione in generazione. Possiedo la sicurezza che cresce come una perla nel duro guscio della letteratura. Dietro il rifugio dei miei libri sono inviolabile.
Scrivo in una cella di prigione.
Ma non sono in prigione.
Sono uno scrittore.
Non sono né là dove sono, né là, dove non sono.
Mi potete chiudere, ma non mi potere fermare.
Poiché io ho il potere di tutti gli scrittori. Posso, senza sforzo, attraversare muri.
Lo scrittore Ahmet Altan, un fervente critico del regime Erdoğan e uno dei primi scrittori turchi a denunciare pubblicamente il genocidio degli armeni, fu arestato con l’acusa di sostenimento di una organizzazione terroristica nel settembre 2016.
Traduzione dalla traduzione tedesca – filologicamente discutibile, ma giustificato dall’urgenza di diffondere questo testo – di Stefanie Golisch

Veröffentlichung durch die Übersetzerin gestattet 
Quelle: https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2017/10/17/ahmet-altan-mi-possono-imprigionare-ma-non-mi-possono-tenere/#more-98362 (Stand 20. Oktober 2017)

Dienstag, 10. Oktober 2017

Solidarisiert euch: Türkischer Schriftsteller Ahmet Altan seit einem Jahr in Haft



Ahmet Altan: «Sie können mich einsperren – halten können sie mich nicht»

Seit mehr als einem Jahr sitzt der türkische Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan im Gefängnis. In einem bewegenden Manifest erklärt er, warum ihn die Haft nicht brechen kann.

Unbequeme Stimme

as. · Ahmet Altan, 1950 in Ankara geboren, sitzt seit mehr als einem Jahr in der Türkei in Haft. Der Schriftsteller und Journalist hatte in einer Fernsehsendung unmittelbar vor dem Putschversuch am 15. Juli gesagt, die AKP werde ihre Macht verlieren, was ihm postwendend als «Mittäterschaft» am Staatsstreich ausgelegt wurde. Die Äußerung war ein bequemer Vorwand, eine unbequeme Stimme zum Schweigen zu bringen: Altan hatte als Journalist und später als Herausgeber der Zeitung «Taraf» immer wieder kritisch gegen die Machthaber in der Türkei Position bezogen und auch Tabuthemen wie die Diskriminierung der Kurden und den Völkermord an den Armeniern aufgegriffen. Daneben trat er als Verfasser mehrerer Romane hervor. Zusammen mit ihm wurde sein Bruder Mehmet, Professor für Volkswirtschaft und ebenfalls publizistisch tätig, verhaftet und angeklagt; die Brüder werden im selben Gefängnis festgehalten, dürfen einander aber nicht sehen. Das Manuskript des abgedruckten Beitrags konnte Altans Anwalt aus der Haftanstalt schmuggeln.


Ich schreibe diese Worte in der Gefängniszelle“

«Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle»: Mit diesen Worten beginnt der türkische Schriftsteller Ahmet Altan sein Manifest, das er über seinen Anwalt aus der Haftanstalt schmuggeln konnte. Altan sitzt seit mehr als einem Jahr in der Türkei in Haft, «in einem Hochsicherheitsgefängnis draußen im Nirgendwo». Der Schriftsteller und Journalist hatte immer wieder kritisch gegen die Machthaber in der Türkei Position bezogen und auch Tabuthemen wie die Diskriminierung der Kurden und den Völkermord an den Armeniern aufgegriffen. «Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle», schreibt er nun also, nach seiner Verhaftung. Und er fügt kraftvoll hinzu: «Aber ich bin nicht im Gefängnis. Ich bin Schriftsteller. Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin. Ihr könnt mich gefangen setzen, aber ihr könnt mich nicht gefangen halten.» Ungekürzt untenstehend sein Manifest, dessen deutsche Übersetzung die NZZ exklusiv publiziert.

Ahmet Altan: «Sie können mich einsperren – halten können sie mich nicht»

Ahmet Altan10.10.2017, 05:30 Uhr


«Ein Objekt in Bewegung ist weder dort, wo es ist, noch dort, wo es nicht ist» – so die Implikation von Zenons berühmtem Paradox. Schon früh kam ich zu dem Schluss, dass dieses Paradox zur Literatur, und erst recht zum Schriftsteller, viel besser passt als zur Physik.

Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle.
Fügen Sie den Satz «Ich schreibe diese Worte in einer Gefängniszelle» irgendeiner Erzählung bei, und sie wird dadurch eine vibrierende Innenspannung gewinnen, den Klang einer Stimme, die sich furchteinflössend aus einer dunklen, mysteriösen Welt erhebt; die von der Unbeugsamkeit des Geknechteten spricht und unüberhörbar Mitleid einfordert.
Bevor Sie die Trommeln des Erbarmens zu rühren beginnen, sollten Sie erst einmal hören, was ich Ihnen zu erzählen habe.
Es ist ein gefährlicher Satz; er kann dazu dienlich sein, die Gefühle anderer Menschen auszunutzen. Und Schriftsteller sind nicht immer gegen die Versuchung gefeit, Sprache und die Emotionen, die sie wachruft, in einer Weise zu verwenden, die ihren eigenen Interessen dient. Sogar wenn die Leser das realisieren, mögen sie immer noch geneigt sein, Erbarmen mit dem Schriftsteller zu haben.
Aber halt. Bevor Sie die Trommeln des Erbarmens zu rühren beginnen, sollten Sie erst einmal hören, was ich Ihnen zu erzählen habe.

Ja, ich werde in einem Hochsicherheitsgefängnis draussen im Nirgendwo festgehalten.
Ja, ich lebe in einer Zelle, deren Tür sich mit dem schweren Klang von Eisen öffnet und schliesst.
Ja, das Essen wird mir durch einen Schlitz in der Türe gereicht.
Ja, auch der kleine, steingeflieste Hof, wo ich auf und ab gehe, ist mit stählernen Gittern gedeckt.
Ja, ich darf niemanden sehen ausser meinem Anwalt und meinen Kindern; ich darf nicht einmal zwei Zeilen an meine Lieben schicken.
Ja, wenn ich ins Spital muss, ziehen sie ein Paar Handschellen aus einem ganzen Bündel eiserner Gerätschaften und legen sie mir an.
Ja, wann immer sie mich aus der Zelle holen, schlagen mir Befehle wie «Arme hoch, Schuhe ausziehen» ins Gesicht.
All das ist wahr, aber es ist nicht die ganze Wahrheit.
Bis heute bin ich nicht ein Mal im Gefängnis erwacht – nie.
An Sommermorgen, wenn die ersten Sonnenstrahlen durchs nackte, vergitterte Fenster dringen und sich wie leuchtende Speere in mein Kissen bohren, lausche ich dem munteren Gesang der Zugvögel, die draussen auf der Traufe genächtigt haben, und dem seltsamen, trockenen Geräusch, das entsteht, wenn die Häftlinge beim Hofgang auf eine Plasticflasche treten.
Dann glaube ich, im Gartenpavillon meines Elternhauses zu sein, oder – ich kann selbst nicht sagen, warum – in einem kleinen Hotel an einer jener belebten Pariser Strassen, die man aus «Irma la Douce» kennt.
Wenn ich aufwache und wütender Nordwind den Herbstregen gegen mein Fenster peitscht, dann beginne ich meinen Tag in einem Hotel am Ufer der Donau, vor dessen Tor jede Nacht Fackeln entzündet werden. Wenn mich das Geflüster des Schnees weckt, der sich auf dem Sims häuft, dann finde ich mich hinter dem Fenster der Datscha, in der Doktor Schiwago Zuflucht fand.
Bis heute bin ich nicht ein Mal im Gefängnis erwacht – nie.
Und das ist noch nichts im Vergleich zu meinen nächtlichen Abenteuern. Ich streife über thailändische Inseln, durch Londoner Hotels, die Strassen Amsterdams, die geheimen Labyrinthe von Paris, die Istanbuler Restaurants am Bosporusufer, die kleinen Parks, die sich zwischen den Strassen von New York verbergen, durch die schneeverwehten Strassen einer Kleinstadt in Alaska.
Ich habe Freunde auf der ganzen Welt, die mir beim Reisen helfen, auch wenn ich die meisten von ihnen nie gesehen habe.
Sie können mir am Ufer des Amazonas begegnen, an einem mexikanischen Strand, in den Savannen Afrikas. Tagein, tagaus rede ich mit Menschen, die keiner sieht oder hört, Menschen, die nicht existieren, deren Existenz erst an dem Tag beginnen wird, da ich über sie schreibe. Ich lausche, während sie sich miteinander unterhalten. Ich lebe ihre Liebe, ihre Abenteuer, ihre Hoffnungen, Kümmernisse und Freuden. Manchmal lache ich leise während des Hofgangs, weil ihre Gespräche ziemlich unterhaltsam sein können. Und weil ich sie hier im Gefängnis nicht auf Papier bannen will, schreibe ich mir all das mit der dunklen Tinte des Gedächtnisses direkt ins Hirn.
Ich weiß, dass ich ein Schizophrener bin, solange alle diese Leute in meinem Kopf wohnen bleiben. Ich weiß aber auch, dass ich ein Schriftsteller bin und dass diese Leute sich eines Tages in den Sätzen auf den Seiten eines Buches wiederfinden werden. Ich vergnüge mich damit, wie auf einer Schaukel zwischen Schizophrenie und Autorschaft hin und her zu schwingen. Ich erhebe mich in die Luft wie Rauch und verlasse das Gefängnis an der Seite der Menschen, die in meinen Gedanken leben. Sie – die anderen – mögen die Macht haben, mich ins Gefängnis zu sperren; im Gefängnis halten können sie mich nicht.
Hinter der stählernen Wehr meiner Bücher bin ich unverletzlich.
Ich bin Schriftsteller.
Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin.
Wo auch immer ihr mich einsperrt, werde ich die Welt auf den Flügeln meiner Gedanken bereisen.
Und obendrein habe ich Freunde auf der ganzen Welt, die mir beim Reisen helfen, auch wenn ich die meisten von ihnen nie gesehen habe.
Jedes Auge, das liest, was ich schreibe, jede Stimme, die meinen Namen nennt, nimmt mich bei der Hand wie eine kleine Wolke und lässt mich über die Ebenen fliegen, die Quellen, die Wälder, die Meere, die Städte und Strassen. Ohne grosse Worte gewähren sie mir Gastrecht in ihren Häusern, ihren Hallen, ihren Zimmern.
In einer Gefängniszelle bereise ich die ganze Welt.

Sie haben es wohl erraten: Ich besitze eine göttliche Arroganz – eine, die selten eingestanden wird, die aber den Schriftstellern ureigen ist und von einer Generation zur nächsten weitergereicht wird. Ich besitze ein Selbstvertrauen, das wie eine Perle in der harten Schale der Literatur wächst. Hinter der stählernen Wehr meiner Bücher bin ich unverletzlich.
Ich schreibe dies in einer Gefängniszelle.
Aber ich bin nicht im Gefängnis.
Ich bin Schriftsteller.
Ich bin weder dort, wo ich bin, noch dort, wo ich nicht bin.
Ihr könnt mich gefangen setzen, aber ihr könnt mich nicht gefangen halten.
Weil ich die Zaubermacht habe, die allen Schriftstellern eigen ist. Ich kann mühelos durch Wände gehen.
Der Text Ahmet Altans erschien in einer von Yasemin Çongar besorgten englischen Übersetzung auf der Website der Society of Authors. Aus dem Englischen von as.

Wer seine Worte liest, schenkt ihm ein Stück Freiheit: Der Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan. (Bild: Guillem Lopez / Photoshot / Alamy)

Wer seine Worte liest, schenkt ihm ein Stück Freiheit: Der Schriftsteller und Journalist Ahmet Altan. (Bild: Guillem Lopez / Photoshot / Alamy)


Mittwoch, 27. September 2017

"Der Weg der Kunst": Die Dechiffrierung des Schimmers. Annotation zu Hubertus Giebe



"Der Weg der Kunst"*

von

Axel Reitel

Wirklich urteilen kann nur die Partei, als Partei aber kann sie nicht urteilen. Demnach gibt es in der Welt keine Urteilsmöglichkeit, sondern nur deren Schimmer.i

Frank Kafka

I.
 
Die Dechiffrierung des Schimmers



Annotation zu Hubertus Giebe

 
Er liebt das Leben und sieht den Tod.ii
                                                                    
Dieter Hoffmann

 

1979

Der DDR-Kunst wird nachgesagt, sie eile gehorsam im Parteiauftrag voraus. Was der Partei nicht angenehm ist, gehöre nicht ins Repertoire. Sie bevorzuge statisch affirmative, nicht dynamisch fragende Symbole, deshalb sei ihre Aussage um eine entscheidende Dimension „flacher und ärmer“. Wechselt man den Standpunkt, lautet das Ergebnis am Beispiel Tübke umgekehrt: Seine Gestalten sind um soviel plastischer wie sie die gesellschaftliche Wahrheit „sichtbar aussparen“. Das geschieht beim großen Panormabild vor den Augen des Betrachters. Dabei erinnere ich mich an den Besuch einer Kunstausstellung in Dresden. Nämlich was mir dabei fehlt. Das Betrachten des großen Kriegstryptichons von Otto Dix evozierte erzählte Kriegserlebnisse meines Vaters und andere, vorher noch undurchsichtige Zusammenhänge, tauchten auf. Dann wende ich mich Willy Sittes großformatiger Vervielfachung eines Schwimmers zu, bei der mir dieser stille Fingerzeig ruht. Das Bild wirkt sehr realistisch, die Farbe ist sehr lebendig, aber es vermittelt dem Achtzehnjährigen nicht den „Sinn für alles wirklich Gewesene“iii. Die Haltung des Schwimmers scheint eher wie ausgesperrt, sie überbrückte keinen Abgrund, den die Macht gegen die Masse „aufgerissen“ hat. Dort „die tobende Vernichtung“iv, hier die ausgesperrte Zukunft: Indessen ist der junge Betrachter auf der Suche nach den Zusammenhängen der Faktoren - wie sie mir Jahre später die Bilder des Malers Hubertus Giebe offenbaren -, und befürchtet ein paradoxes Phänomen.

1990


Im Jahr 1990 kehre ich, mit einem Kunstgeschichtsstudium im Rücken, in meine Mutterstadt zurück. Mit Rückkehr ist die Suche nach den Zusammenhängen keineswegs abgeschlossen. Sittes Staat ist untergegangen. Gut. Die Entschlüsselung des „Schwimmers“ aber fällt mir bereits in den frühen 1980er Jahren im gesellschaftlich höher gestaffelten Stasigefängnis wie Schuppen von den Augen. Wenn Franz Kafka sagt, „von einem wahren Gegener wachsen dir unermessliche Kräfte zu“, so sehe ich den mir zugewiesenen Vernehmer als jenen Schwimmer, der sich vor den Augen des Vernommenen verdoppelt und verdreifacht in seiner unermesslichen Macht, und doch es ist ein trauriger Anblick, denn er bleibt ausgesperrt vor den inneren Interessen seiner Partei, die sich weder nach dem Guten und Bösen richten, sondern einzig nach ihrem Erhalt. Wie weit diese aggressive Macht bereits gegangen ist dabei, zeigen die Schauprozesse der 1930er und 1950er Jahre. Einserseits müsste man dort ansetzten und nicht in „furchtbaren Wirrnissen“v davonkraulen, andererseits schlägt die Zeit dialektisch um sich: Wirr und zusammenhanglos stehen die Stasi-Vernehmer 1990 auf der Straße: ihre Geheimarchive offen und die Straße kennt all ihre Namen. Und die Stasi war auch mein Eckermann. Die ausführliche Inhaltangabe vorbereiteter Reportagen über Zustand und Zusammenhang eine ausgegrenzten Jugend im südlichen Vogtland füllen zwei Verhörprotolle an zwei aufeinanderfolgenen Tagen. Als ich im Sommer 1990, bei einem anderen befreundeten Maler, erstmals einen Katalog von Hubertus Giebe aufschlage, kommt alles aus dem „Orkus“ herauf, was Leben hatte, „das jetzt Leben hat“, als wäre von einmal „alles klar“ mit all den verborgenen Motiven und „was eigentlich es ist“vi, das zur Dunkelheit bewegt. Rembrandt malte das „wie durch dunkles Glas“. Auch er liebte das Leben und sah den feigen Hund, Gevatter Hain. Bei den Neuen Meistern aber fällt es mir zum ersten Mal auf in jenem Katalog (Aufzählung aus dem Gedächtnis): „Zwei gekreuzte Männer“, „Der Widerstand“, „Die Bedrohung“, „Aufmarsch der Puppen“, „Schein & Chock“. Allesamt Bilder, „die in einen einbrechen beim ersten Blick“vii, der Eindruck„ist intensiv“viii und ganz „ohne donnernden Anspruch, in Mode“ix zu kommen. Und gleich noch ein seltsames Wort: Ich fühlte mich entschädigt. Was das heißt, dazu schreibt Franz Kafka, „durch ein Wort, durch einen Blick, durch ein Zeichen des Vertrauens [kann] mehr erreicht werden als durch lebenslange, auszehrende Bemühungen“x. Durch ein Bild, durch zwei Bilder, durch drei Bilder, durch vier Bilder, durch fünf Bilder: Die Suche abgeschlossen, Ballast abgeworfen, von leichtem Gewicht, eine Tür geöffnet. Die Annäherung an geschehene Geschichte, die Dechiffreriung des „Schimmers“, geht mich als Schriftsteller ebenfalls viel an. Dabei kann ich noch immer viel von der „monolithischen“xi Bildwelt Giebes lernen, zum Beispiel „die nötige Entfernung“xii . Und die Bewunderung für sein „kraftvolles, reiches Schaffen“xiii nimmt immer mehr zu.

Foto: Sandstein Verlag 2016 
 
 
 
2016/17


Der ausgebreitete Katalog Schein & Chock aus dem Jahr 2016 wiederholt und verstärkt dannn auch den ersten Eindruck: Doppelseitig in edlem Farbdruck habe ich erneut das titelgebende Gemälde (für Walter Benjamin) vor Augen. Die mit dem mörderischen Überfall des „banalen Bösen“ in dunkler Schlucht gefangene Figurengruppe kann angesichts der heutigen - der aktuellen - gewalttätigen Bedrohungen auf der halben Welt gezeigt werden und jeder könnte die Darstellung dieses unheimlichen Seelenraubes verstehen. „Wo aber Gefahr ist, ist das Rettende auch“, wusste der in der Welt wohl berühmteste deutsche Dichter Hölderlin. Rückverknüpfungen mit geschehem Unrecht erzeugen ja ihre eigene Wirksamkeit, sie sind „nichts weniger als schwächliche Schwärmerei“ (so wie mir der „Schwimmer“ heute noch vorkommt, sorry W.S.!), sondern „Tiefe, welche sich zugleich als Kraft, als Fülle empfindet“xiv. Doch noch einmal Vorsicht! (um mit einem Wort meines geschätzten Kollegen Udo Scheer überzuleiten): Die „dämonischen Kräfte des Lebens“xv, „das [ihnen] Charakteristische und Bedrohliche“xvi, sind vom „Fleische“ dieser Welt, obwohl es doch offensichtlich von Geburt an darum geht, „daß man gern auf dieser Erde lebt“ (Reiner Kunze). Diesen Widerspruch kennt nur zu gut der Maler und Zeichner Hubertus Giebe. Seine zur „endlichen Selbsterkenntis“ gehörende „Außenkenntnis“ ist davon gespeist. Das Rettende findet er darin, „einen Ausgleich zwischen beiden Polen zu finden, also die sehr problematische Formel und die sehr mächtige Formel eines Kompromisses im Leben“xvii. Tatsächlich kommen Giebes Landschftasbilder ohne diese menschliche Zerissenheit aus, sie brauchen sie nicht, ihre „Zungen“ preisen die erfindungsreiche Natur und ihre perspektivreiche Schönheit trifft einen, als wären unsere Gebete erhört und der böse Strick zerissen. Das Gemälder „Sommergarten“ sah ich nach der wunderbaren Personalaustellung in der Kunstsammlung der Städtischen Galerie Dresden, wieder vorzüglich ausgleuchtet in der Berliner RAAB-Galerie. Und das Leuchten aus der Mitte des Gemäldes war so - als gäbe es nichts anderes mehr als das Erfreulichste, „das Licht“, wie Schopenhauer konstatiert. Den gleiche Eindruck verschaffen auch „Großer Garten im Mondlicht“, „Bugewitz (Oderhaff), „Wattenmeer bei Dangst“, „Stilleben mit Monstera und Kerze“. Sodann die vollendeten Portraitgemälde. Auch diesen Bildnissen wohnt ein Leuchten inne, wo „die Menschen sich [nicht] wider uns setzen“ (Psalm 124). Burghard Menzel lernte ich selbst einmal in der Herulesstraße 4 kennen. Ein hoch gebildeter Mann mit einer von Grunde auf angenehmen, ja schon inspirierenden Austrahlung. Im Bildnis ist alles glücklich erwacht. Frei nach Tucholsky: Wird sich der Traum einer glücklich erwachten Welt einmal verwirklichen?



Hubertus Giebe, Schein & Chock, 160 Seiten, ausgewogener Textanteil, Fotos und Farbreproduktionen, Sandstein Verlag 2016. ISBN: 978-3-95498-259-2. 28 Euro.


* Originaltitel von Albert Dresdner. Verlag: E. Diederichs, Jena, 1909
 
iFranz Kafka, Das dritte Oktavheft, in: Das Werk, Zweitausendeins 2004: 660.

iiDer Zeichner Hubertus Giebe, in: Texte zu Hubertus Giebe 1978-1994, Dresden 1995: 63.

iiiThomas Mann: Rede über Deutschland und die Deutschen. Gehalten am 6. Juni 1945 in der Library Of Congress, Washington. Suhrkamp Verlag Berlin 1947: 27.

ivWilhelm Fraenger, Bosch, VEB Verlag der Kunst Dresden 1975:219.

vErasmus von Rotterdam, „Lob der Torheit“, zitiert in Mann: 25.

viArthur Schopenhauer, Parerga und Paralipomena I, Haffmanns Verlag 1999: 483.

viiEva Strittmatter, in: Texte zu Hubertus Giebe 1978-1994, Dresden 1995: 19.

viiiTitia Hoffmeister, ebenda: 66.

ixAnnita Tozzi-Wiesmann, ebenda: 39.

xFrank Kafka, Das Schloß, ztitiert in:Axel Reitel, Jugendstrafvollzug in der DDR, Köster 2012: 16.

xiHubertus Giebe, Schein &Chock, Sandstein Verlag (Katalog) 2016: 62.

xii Hubertus Giebe: Dresden Neustadt: Zwischen Frühlingsstraße und Lutherkirche, Städtische Sammlung Freital 2013:29.

xiiiGisbert Postmann, in: Sandstein:7.

xivMann: 26.

xvEbenda.

xviMann:27.

xviiSandstein:64.

Mittwoch, 6. September 2017

Galerie, Galerie: "History of Art" - El Bocho und andere: Vernissage am 16.9.2017 in der Berliner RAAB-Galerie

  jrgallery - Goethestraße 81, 10623 Berlin    Raab Galerie – Goethestraße 81, 10623 Berlin





Einladung zur Ausstellungseröffnung

History of Art

am Freitag, den 8.September 2017 in der Zeit von 18 bis 21 Uhr
mit Werken von
u.a. Albert- Baumgärtel Bleckner El Bocho Dessi Dichgans Dine Fetting Führer Giebe Gur Hödicke Kaletsch Kim Kirke Klemm Köhler Krammer Lagqaffe Lüpertz Maron Molfetta Qin Raminhos Schlüter Salome Sous Sultan Trökes Vellguth Wolf Ye
 
                        Liebe Freunde und Sammler der Raab Galerie,

es gehört dazu, sich Fragen an das Meisterwerk,die Kunstgeschichte, die Bedeutung eines Künstlers zu stellen, auch wenn man sie in der eigenen Zeit kaum unbeeinflußt  beantworten kann. Einen Anhaltspunkt gibt es jedoch immer: das Kunstwerk, das einen anstrahlt und ein Spiegel des eigenen Urteils ist, das sich aus einer Fülle von Informationen über Kunstwerke herausgebildet hat, ganz unabhängig vom Kunstmarkt, von Sachverständigen, Schätzpreisen und Ranglisten der besten zeitgenössischen Künstler. 
Spannend ist an der Kunstgeschichte, dass sie Künstlerleben über Jahrhunderte verlängert, ein Künstler, der sich heute auf Rubens bezieht, holt die ganze Geschichte mit an Bord. Voraussetzung ist, dass der Wettstreit bestanden wird, dass nämlich sichtbar wird, warum dem Vorbild aus heutiger Sicht noch etwas hinzuzufügen ist, was abzuändern, umzudichten wäre und wie das auch den Blick auf das kunsthistorische Vorbild verändert, was im besten Fall wieder hochaktuell durch die Neuinterpretation wird.
                             





 
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 Wenn Künstler in Museen gehen, besuchen sie dort die Lieblingswerke ihrer Lieblingskünstler. Danach können sie vor der eigenen Leinwand ausprobieren, wie leicht oder komplziert der Malstil des Kollegen selbst zu bewerkstelligen ist und ob die Effekte auch für das eigene Werk taugen. Über Generationen kann man tradiertes Wissen um Licht und Schatten, Farbauftrag, Farblehre und eigene Handschrift bewundern, weil Wettbewerb nicht bei der eigenen Generation aufhört. Vieles gerät einmal aus der Mode, oft nur, bis die Mode in anderer Verkleidung wiederkehrt.
Auch Stilrichtungen üben großen Reiz auf Künstler aus. Es gibt Einflüsse, die nicht nur von bildender Kunst ausgehen, sondern in Literatur, Mode, Film, Comic zu Hause sind, wie der Surrealismus. Wem das zu versponnen ist, der kann ganz handfest zur pop art greifen, deren erste Akteure zunächst
hochprofessionell ihr Geld in der Werbebranche verdient haben. Mit dem "popular" Ansatz zeigt sich ihr Spaß am Ausprobieren neuer Effekte.  Sie wissen auch, wie ein attraktives Werk aussehen sollte. Malen wie Lichtenstein muß man dennoch erst einmal können, der hochsensible und zurückgezogen lebende Mensch war seinen Themen in geduldiger, liebevoller Art zugewandt. Viele weitere Richtungen haben die letzten siebzig Jahre in der Malerei definiert. Auf den Surrealismus folgt der abstrakte Expressionismus, der so hochkarätig und subversiv diskutiert wird, dass sich sofort eine Gegenrichtung stark macht: die Neuauflage des gegenständlichen Expressionismus. Angeregt von der Nanotechnik ist auch die Vergößerung/Verkleinerung ein wichtiges Thema, neue Fotos aus den Naturwissenschaften bringen eine subtile Farb- und Foremnwelt hervor, die Künstler wie Ross Bleckner schon seit langem faszinieren. Aus Duchamps Werk haben einige den Schluß gezogen, dass er Malerei abschaffen wollte, das kommentiert jeder Vollblutmaler bis heute mit Schadenfreude und einer Fülle großartiger Bildideen.  Wir erinnern uns jetzt an die Kunstwerke, die zeitgenössiche Kunst angeregt haben und Modell standen für die nächsten Generationen.
Wir laden Sie ein zu besichtigen, was Sie gedanklich beeinflussen und bewegen könnte und freuen uns, Ihnen die vielen Überaschungen zu unserer nächsten Ausstellungseröffnung zu zeigen. Denn es läßt sich nicht abstreiten, den Künstlern hat das Thema gefallen und sie haben uns wunderschöne Werke gebracht. 

Dienstag, 6. Juni 2017

Buchkritk: Briefe ohne Unterschrift. Wie eine BBC-Sendung die DDR herausforderte

Briefe ohne Unterschrift. Susanne Schädlich legt ein beeindruckendes Buch über eine BBC-Sendung vor, die die DDR herausforderte




„Lieber Londoner Rundfunk, ich bin schon seit langer Zeit ein ständiger Hörer Deiner Sendungen, am meisten gefallen mir die Sendungen ‚Im Spiegel der Sowjetzone‘, oder ‚Hinter der Fassade des Kommunismus‘ und vor allem freitags ‚Briefe ohne Unterschrift‘“.

Von 1949 bis 1975 werden in dieser BBC-Sendung anonyme Zuschriften von DDR-Bürgern gelesen. Das Lesen der Briefe wird – nach Vermutung, wer der Absender ist – von männlichen und weiblichen Sprechern übernommen. Den Kommentar übernimmt der Leiter der Sendung, Austin René Harrison. Die Reihe wird jeden Freitag ab „20. 15 Uhr deutscher Zeit“ im „Abendprogramm in deutscher Sprache“ gesendet und kann sich über ein mangelndes Echo nicht beklagen. Die Sendereihe genießt im Gegenteil schnell den Ruf einer moralischen Instanz. Harrisons Stimme wird zum Markenzeichen der Sendung. Viele Briefe richten sich direkt an ihn.

In einem Artikel der WELT vom 05. September 1979 [über die Erweiterung des Verbreitungsgebietes der Deutschen Welle] gibt der frühere Mitarbeiter Richard 0‘ Rorke für einen derartigen erfolgreichen Fremdsprachendienst die Regel aus: „Man muss Hörern bieten, was sie sonst nicht erhalten können.“ Dazu erzählte er, „dass die Hörer in der ‚DDR‘ zunehmend die BBC hörten, als London die ‚Briefe ohne Unterschrift‘ aus der ‚DDR‘ mit meist politischer Kritik verlas“.  Vier Jahre zuvor wurde die Sendung überraschend eingestellt. Die Gründe dafür ergeben ein weltpolitisches Lehrstück.

Im Kern spiegeln die Briefe die Folgen der beiden Hauptstrukturen der Weltpolitik in der DDR der Nachkriegszeit.

Das sind von 1949 bis 1963 die Folgen der Zeit der Bipolarität als entscheidendes Strukturelement der Weltpolitik, als die Hegemonialmächte USA und Sowjetunion im Kampf der Systeme allen ihren Partnern weit überlegen sind. Von 1963 bis 1975 sind es dann die Folgen der Begrenzten Multipolarität, als die friedliche Beilegung der Cuba-Krise neue Tendenzen in den internationalen Beziehungen eingeleitet. Hinzu kommen neue Einsichten durch die Herstellung eines militärischen Gleichgewichts.

Dabei führt die in diese neuen Einsichten einfließende Entspannungspolitik womöglich auch zum Ende der Sendung. Sie wird im Juli 1974 „ohne Angaben von Gründen aus dem Programm [der BBC] genommen.“
Warum eigentlich? Geben doch die Briefe ohne Unterschrift die unterschiedlichsten Ansichten und Richtungswechsel wider. Vor allem aber machen sie die Fülle des Wahrgenommen unterhalb der Sphäre der Weltpolitik überschaubar. Dabei nutzt das Gros den Brief als die Freiheit, nichts verheimlichen zu müssen und zwar da, wo man sonst „Wahrheit und Lüge nicht mehr unterscheiden[kann].“

Andere operieren ziemlich forsch mit groben Verteidigungsreden der DDR. „Die Butter ist hier nicht knapp“, heißt es einmal, “sonst würde man nicht mehr Butter bekommen als einem zusteht. Ich komme aus und wenn ich keine mehr habe, kaufe ich mir neue, aber keine Margarine, so wie die Westler es tun, die sich keine Butter leisten können, weil sie alles in die Miete stecken müssen, sonst fliegen sie raus. Also, sehen Sie, mein Herr, es ist nicht alles Gold, was glänzt. Ich hoffe, dass sie eine Ausnahme machen und diesen Brief auch veröffentlichen.“

Auch in diesem Fall ist der Angesprochene Austin Harrison – und Harrison kommentiert auf seine eigene britische Art: „Warum nicht? […] Wenn wir Ihnen die Möglichkeit geben zu sagen, wie zufrieden sie sind, so dürfen wir vielleicht auch Verständnis für die Meinung anderer erwarten, die sich aufregen.“

Für die Mehrheit der Briefeschreiber gestaltet sich aber „die Meinung anderer“ gerade dort schwierig, wo es pausenlos heißt, “alle westlichen Rundfunk-und Fernsehstationen sind Hetzzentren, und deshalb darf sie kein Bürger der DDR empfangen“. Bereits jüngere DDR-Briefeschreiber schreiben dazu klipp und klar: „Wir bekommen in der Schule lauter Quatsch über Politik zu hören. Darum höre ich Ihre Sendung sehr gerne.“ Öfter wird auch das Gefühl ausgesprochen, nur dank der BBC-Sendung „nicht auf verlorenen Posten zu stehen.“

Für das der - ohne Aussicht auf Veränderung  - allein regierenden Partei verpflichtete Ministerium für Staatssicherheitsdienst, die Stasi, sind derlei Mitteilungen nicht gerecht. Sie steuert mit allen Mitteln des Kalten Krieges dagegen und beginnt die Briefeschreiber gnadenlos zu verfolgen. Doch auch die Stasi macht Fehler. Eine Niederlage erleidet sie mit der Behauptung, „die Briefe seien alle gefälscht. Von Agenten. Von uns.“ Denn im „Funkhaus“ liegen die „Originalbriefe“ vor. Doch sie konditioniert ihre Abwehr- und Einflussmöglichkeiten. Sowohl umfassende Liquidierungspläne als auch ein hoch-aktives Netzwerk überwiegend akademisch gebildeter Inoffizieller Mitarbeiter, kurz IM, übt nun einen permanenten Druck aus.

Zum Stamm der eingesetzten IM gehört auch der Onkel Susanne Schädlichs, der seit 1969 „für seine Dissertation Kontakt zu den Leuten von der BBC“ hat. Auch er nimmt an den „Zersetzungsplänen“ der Stasi gegen die eruierten BBC-Mitarbeiter der Sendung teil, erhält eine Legende und einen anonymisierenden Decknamen. Doch die BBC ahnt solche Strukturen und lässt die Briefe nicht offen herumliegen, sondern bewahrt sie in einem Safe.

Mit der drastischen Verengung des Lebens nach dem 13. August 1961 manifestiert sich in den Briefen vor allem die Forderung nach der Wiedervereinigung. Damit ist für die Stasi freilich die letzte rote Linie überschritten. Wer sich nicht über die Mauer freut, ist zumindest der Hetze verdächtig. Die Stasi ermittelt auf Hochtouren und fängt etliche Briefe ab. So mancher Briefschreibende wird „Im Namen des Volkes!“ für Jahre eingebuchtet.

Mit dem Fallbeispiel des siebzehnjährigen Oberschülers Karl-Heinz Borchardt ist der Autorin nun ein ganz besonders plastisches Stück Literatur gelungen. Die Stasi kam ihm über einen abgefangenen Brief und Schriftgutachtern auf die Spur. Ohne den wahren Anlass zu kennen, müssen Borchardt und seine Abiturklasse einen Aufsatz schreiben. Natürlich hat das Thema mit dem Anlass nichts zu tun. Die Ergebnisse landen sämtlich bei der Stasi. Borchardt, der um seinen Lieblingssender nie einen Hehl machte, schreibt also nichtsahnend weiter an „Mister Harrison“ seine „ehrliche Meinung“.

Dabei steckt er voller jugendlicher Widersprüchlichkeit. Einmal tadelt er „Willy Brandts Ostpolitik“, die der „Londoner Rundfunk“ auch noch „feiern“ würde. Ganz im Gegenteil sieht er seinerseits nur „Gewalt“ als einzige Lösung, um die kommunistische Gewaltherrschaft zu beenden. Ein anderes Mal träumt er davon, später einmal „Aufträge [zu] erhalten, wie die Planung und Leitung unserer Wirtschaft weiter verbessert werden können.“

Die Verfolgungsgeschichte des Schülers B., der am Ende zwei Jahre Freiheitsentzug kassiert, scheint dem Rezensenten gerade für den heutigen Schulunterricht bestens geeignet. Der Status des heute an der Universität Greifswald lehrenden Dr. Karl-Heinz Borchardt wirkt hierbei abrundend als ein wunderbarer Beweis später Gerechtigkeit.

Als sich Austin Harrison am 31. Januar 1975 ein letztes Mal an die Hörergemeinschaft der Briefe ohne Unterschrift wendet, äußerte er am Ende seiner Radioansprache die Hoffnung, dass „die BBC [vielleicht] eines Tages Auszüge aus den Briefen in Buchform veröffentlichen [wird]“.

Das Schreiben dieses Buch fiel vier Dekaden später der Schriftstellerin Susanne Schädlich zu. Sie gibt mit diesem Buch Menschen und Schicksalen, die vergessen und damit ohne jegliche Resonanz geblieben wären, die endlich verdiente Öffentlichkeit. Nicht zuletzt erwähnenswert ist dabei das Wiederfinden der Sendemanuskripte, die verloren geglaubt waren. Ein kostbarer Vorgang für ein wirklich sehr lesenswertes Buch. Damit der Hunger auf das, was war, nicht erlahmt.



 Susanne Schädlich. Briefe ohne Unterschrift. Wie eine BBC-Sendung die DDR herausforderte. 285 Seiten. Abbildung von Originalbriefen. Albrecht Knaus Verlag 2017.

Quelle:  http://www.tabularasamagazin.de/briefe-ohne-unterschrift-susanne-schaedlichs-legt-ein-beeindruckendes-buch-ueber-eine-bbc-sendung-vor-die-die-ddr-herausforderte/ (Stand 06.06.2017)

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